Pro Loco Signa A.P.S.
FRA MARTINO DA SIGNA

FRA MARTINO DA SIGNA

Nacque a Signa, nei pressi di Firenze, nei primi anni del secolo XIV, 5 giugno 1387.

LA VITA

Scarse le notizie sul suo conto, desumibili per lo più dai registri dell’Ordine. La prima menzione di lui occorre in un documento datato 3 ottobre 1357, allorché il priore generale degli agostiniani, Gregorio da Rimini, gli concesse il permesso di recarsi al convento di Bologna e a tal fine lo dotò di un cavallo.

Non è noto lo scopo del viaggio; probabilmente egli si recò a Bologna «per compiervi gli studi e addottorarsi in teologia». Un documento del settembre 1358 lo cita come «lector Bononie». Nel 1359 prese parte al capitolo generale di Padova.

Pochi altri dati puntellano la ricostruzione della sua biografia. Per più di vent’anni, fino al 1384, si perde ogni traccia di lui; è impossibile pertanto stabilire quando abbia ottenuto la licenza di “Magister Sacrae Theologiae”, titolo con il quale appare in un documento del 28 marzo di quell’anno.

Sotto il generalato di Bartolomeo da Venezia (iniziato nel 1383) la posizione di Martino. in seno all’Ordine appare decisamente rafforzarsi. Nel settembre 1385 fu nominato Priore Generale del convento fiorentino di S. Spirito: «fecimus venerabilem virum fratrem Martinum de Segna de Florentia sacre theologie professorem priorem in conventu nostro de Florentia». Nel maggio dell’anno seguente fu nominato superiore della provincia di Pisa. Il 16 ottobre 1386 gli furono concessi da Bartolomeo da Venezia alcuni privilegi: tra questi «unum famulum seu conversum […] assumere, qui in eius servitiis debeant occupari». Il suo nome è ancora sporadicamente menzionato, per questioni di secondaria importanza, in documenti del gennaio 1387, quando la sua vita volgeva ormai al termine. Morì infatti a Firenze il 5 giugno 1387.

Il corpo fu tumulato nel capitolo di S. Spirito, riservato alle personalità illustri della provincia.

A queste scarne notizie è da aggiungersi ora il contenuto di una lettera inedita di Coluccio Salutati indirizzata ad Angelo Acciaiuoli, cardinale fiorentino, e databile tra maggio 1386 e giugno 1387, al cui studio e alla cui pubblicazione sta attendendo Marco Petoletti. Nella lettera Coluccio difendeva Martino, allora «provincialis Tuscie» degli agostiniani, da alcune maldicenze.

Data l’esiguità dei dati biografici e in mancanza di scritti che consentano di ricostruire la fisionomia intellettuale di Martino (nessuna opera, teologica o filosofica, è pervenuta e non è noto se ne abbia scritte), la sua fama è sostanzialmente affidata al rapporto con Giovanni Boccaccio, il quale fu molto vicino a Martino, nell’estrema e tormentata parte della sua vita. Che Martino abbia rappresentato per Boccaccio l’«illuminato direttore di coscienza» di cui parlò, non senza enfasi,  si può soltanto supporre. Ma certo il legame tra l’autore del Decameron e il frate agostiniano fu profondo, come si ricava da due documenti appartenenti all’ultimo periodo della vita di Boccaccio.

Il primo è l’epistola, scritta probabilmente tra il 1372 e il 1374, con la quale Boccaccio illustrò a Martino, desideroso di chiarimenti, il senso delle allegorie racchiuse nel Buccolicum carmen (terminato nel 1367 ma divulgato nel 1370). Nella prima parte dell’epistola, che nel suo insieme costituisce una sorta di prefazione al testo, Boccaccio traccia una storia del genere pastorale dalle origini ai suoi tempi; per l’antichità ricorrono i nomi di Teocrito e di Virgilio: se il primo fu il fondatore del genere, il secondo fu colui che ne espresse compiutamente le capacità espressive, celando talvolta, sotto la scorza dei versi, significati allegorici. Dopo costoro – continua Boccaccio – molti si diedero alla poesia bucolica, ma con esiti mediocri (giudizio che colpisce in ordine alle Egloghe dantesche), fin quando Petrarca non rifondò il genere, recandolo a perfezione. Ma – dichiara il poeta – egli non seguirà il modello di costui, che sistematicamente pose significati allegorici sotto il nome dei personaggi, bensì quello di Virgilio, che allegorizzò saltuariamente. A questa premessa generale segue l’esposizione ordinata (e non sempre perspicua) dei significati di ciascuna egloga. La lettera, come è detto esplicitamente, andava incontro a una precisa richiesta di Martino («optatum tuum»), che avuto tra le mani il difficile testo aveva pregato l’autore di svelargliene il senso. Ciò lascia supporre in Martino una sensibilità culturale non circoscritta alle sole questioni filosofiche e teologiche.

Rispetto all’epistola, è ben più eloquente, circa la vicinanza tra i due personaggi, il testamento di Boccaccio, rogato a Firenze il 28 agosto 1374. Boccaccio disponeva infatti che alla sua morte i libri da lui posseduti (con l’eccezione, significativa, dei libri in volgare) passassero in eredità al «venerabile frate Martino da Signa». Si precisava che Martino avrebbe potuto disporne a vita come meglio avesse creduto, eventualmente anche mostrandoli a chi gliene avesse fatta richiesta, purché alla sua morte la biblioteca «sine ulla diminutione» fosse donata al convento di S. Spirito. E lì, una volta catalogati e sistemati «in quodam armario», i libri avrebbero dovuto «perpetuo remanere», per servire alla formazione dei frati. E così avvenne: dopo la morte di Martino i manoscritti passarono in effetti al convento, andando a costituire il nucleo della cosiddetta parva libraria di S. Spirito che custodiva, a differenza della maior libraria (o magna), cui erano destinati i codici di frequentissima consultazione, doppioni o libri di consultazione più rara, eventualmente prestabili. Il catalogo di questa sezione della biblioteca, contrariamente alle disposizioni di Boccaccio, fu compilato soltanto nel 1451, quando in essa erano confluiti molti libri estranei al lascito boccacciano.

Quale profitto, in termini spirituali, Martino abbia tratto dalla nobile eredità, non è noto, fatta eccezione per una testimonianza del giurista Lorenzo Ridolfi – che nel 1381 riferisce a Iacopo Tolomei, vescovo di Narni, di aver consultato «in biblioteca […] Magistri Martini ordinis heremitarum gloriosissimi Augustini» i libri «olim Iohannis Boccaccii» (Billanovich) –; nulla è rimasto che possa documentare, in qualunque forma, il tempo in cui quei codici furono tra le mani del frate. Ci sono al contrario noti, con sufficiente chiarezza, i termini della contesa giudiziaria che appena due mesi dopo la morte di Boccaccio oppose gli esecutori testamentari da una parte (tra i quali Iacopo, fratello dello scrittore) e Martino dall’altra: oggetto della controversia «i XXIV quaderni in bambagine» e altri quaderni più piccoli sui quali Boccaccio aveva trascritto le sue Esposizioni sopra la Comedia (interrotte, come si sa, al canto XVII dell’Inferno). Martino, in qualità di erede dei libri dell’autore, ne rivendicava il possesso, ritenendo, presumibilmente, che la formula «omnes […] libros», contenuta nel testamento, fosse da estendersi ai libri in volgare. La lite fu risolta nell’aprile del 1377 con una sentenza del giudice Parente da Prato, il quale, «veduto il testamento del detto messe Giovanni», decise a sfavore del frate (i testi della controversia sono riprodotti in Guerri, pp. 212-216). Nella singolare vicenda, di là dal suo valore documentario, è possibile scorgere il segno del vivace interesse portato da Martino alla cultura letteraria del suo tempo.

BIBLIOGRAFIA

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  • G. Boccaccio, “Lettere edite e inedite”, a cura di F. Corazzini, Firenze 1877, pp. 425-433;
  • D. Guerri, “Il commento del Boccaccio a Dante. Limiti della sua autenticità e questioni critiche che ne emergono”, Bari 1926, pp. 22 s., 212-216;
  • G. Billanovich, “Petrarca e i rettori latini minori, in Italia medioevale e umanistica”, V (1962), p. 119;
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  • M. Petoletti, “Il Marziale autografo di Giovanni Boccaccio”ibid., XLVI (2005), p. 35 n. 1; Id., “Lettere inedite di Coluccio Salutati”ibid., P. Falzone