Pro Loco Signa A.P.S.
SIGNA. CAPITOLO I.

SIGNA. CAPITOLO I.

Lui era solo un ragazzino che veniva cantando durante il clima estivo; cantando come fanno gli uccelli nei cespugli, come cantano di notte i grilli nel grano, come fanno tutto il giorno le api dell’acacia sulle cime degli alti alberi sotto il sole.

Solo un ragazzino con gli occhi castani e i piedi nudi e un cuore malinconico che guidava le sue pecore e le sue capre, e portava i suoi covoni di canna o di mugnaio, e lavorava tra l’uva matura quando veniva il momento, come tutti gli altri, qui nel luminoso paese di Signa.

Pochi tengono alla nostra Signa e a tutto ciò che ha visto e conosciuto. Poche persone non sanno nulla di tutto ciò, tranne che vagamente come un semplice nome. Assisi ha il suo Santo, e Perugia i suoi pittori, e Arezzo il suo poeta, e Siena la sua vergine, e Settignano il suo scultore, e Prato il suo gran carmelitano, e Vespignano il suo ispirato pastore, e Fiesole il suo angelo monaco, e il villaggio Vinci il suo possente maestro; e i poeti scrivono di tutti loro per amore della fama morta che imbalsamano. Ma Signa non ha trovato poeta, sebbene il suo nome giaccia nelle pagine degli antichi cronisti come un gioiello nella tomba di un antico re, scritto lì fin dai tempi latini in cui per la prima volta fu chiamata Signome, stendardo di guerra posto sotto le montagne.

La nostra Signa è così antica che nessun uomo potrebbe raccontare tutto ciò che ha visto nei secoli; ma nemmeno un viaggiatore su diecimila ci pensa. La sua gente intreccia la paglia per il mondo, e il treno che parte dalla costa lo attraversa: questo è tutto ciò che ha a che fare con gli altri popoli.

I viaggiatori vanno e vengono dal mare alla città, dalla città al mare, lungo la grande autostrada di ferro, e forse lanciano uno sguardo alle mura austere e diroccate, alle case bianche sugli scogli, all’ampio fiume con le sabbie lucenti, alle colline azzurre con i pioppi alla base, e i pini alle cime, e si dicono che questa è Signa.

Ma è tutto ciò che fanno; è solo uno sguardo, poi si prosegue attraverso le nebbie verdi e dorate del Valdarno. Signa per loro non è niente, è solo un luogo in cui si fermano un attimo. Eppure Signa è degna di conoscenza.

Lei è così antica e così saggia, e a modo suo anche così bella; e conserva in sé tanti bei ricordi; ha tanti rami di alloro appassiti quanti le donne in età conservano le foglie di rosa morte dei loro giorni d’amore; e una volta – ai tempi della Repubblica, come i suoi figli ancora si allontanano dall’aratro o si riposano sul remo per raccontare con orgoglio a uno straniero; – era proprio un’Amazzone e un’Artemide delle montagne che opponeva coraggiosamente il suo petto a tutti nemici, ed erano molti, che scendevano per la selvaggia strada d’occidente, dal mare o dagli Appennini, con acciaio arrossato e torce ardenti per saccheggiare e incendiare i campi, e diffondere carestia e guerra fino alle porte di Firenze.

Questi giorni sono passati.

Gli anni della sua gloria sono finiti. È un luogo grigio e tranquillo che ora si perde lungo l’acqua e ora si arrampica in alto sulla collina, e guarda l’alba piena del giorno e vede il tramonto riflesso nello specchio del fiume, ed è stellato di lucciole in mezza estate, e a mezzogiorno sembra assonnato per il caldo e sembra sognare, essendo così vecchio. Le mura contraffortate sono rovine. La campana della messa dondola sui tetti delle torri. Le fortezze vengono trasformate in fattorie. Le viti si arrampicano dove ardevano le colubrine. Buoi bianchi e muli campanacci percorrono avanti e indietro le tracce lasciate dalle lance libere; e cantano i contadini ai loro aratri dove un tempo tuonavano le schiere degli invasori.

Le sue vie sono strette, le sue pietre sono tortuose, la sua polvere estiva è densa, il suo fango invernale è pesante, le sue catapecchie sono molte, la sua gente è povera – oh, sì, senza dubbio – ma è bella sotto vari aspetti e degna di nota, pensiero di studioso e di tenerezza di artista. Solo il poeta non arriva a renderlo citato e amato dal mondo come uno solo un’unica linea sulle foglie autunnali alla deriva ha reso Vallombrosa.

Qui dove le antiche mura della sua cittadella si ergono canute e spezzate contro l’azzurro del cielo; là dove gli archi dei ponti scavalcano il fiume, e la sabbia e i bassifondi e la paglia che secca d’estate brillano insieme gialli al sole; lei dove sotto i cupi archi a sesto acuto giocano i bambini, i cui volti ricordano i cherubini e gli amorini del rinascimento; là dove i calzolai, i bottai, le intrecciatrici e i fabbricanti delle scope gialle di giunco, lavorano tutti sotto architravi, mensole e travi di legno intagliate, vecchie di quattrocento anni se ne ha uno; qui dove per le porte dalle saracinesche tessute dai ragni, non passano che i pazienti muli con i sacchi di farina, o i carri di fieno che lasciano l’erba, o i carri di vino nuovo; là dove le ville che furono tutte fortezze nei tempi di aspri combattimenti dell’antichità, brillano bianche alla luce sulle loro creste di colline con i loro cipressi come sentinelle intorno a loro, e distese di mais e vigneti attraversati da verdi sentieri erbosi, che portano verso l’alto dove il pino cembro e il mirto insieme rendono dolce l’aria. In tutte queste Signa è bella; soprattutto, naturalmente, nella lunga estate luminosa e radiosa, quando gli usignoli cantano ovunque, a mezzogiorno e di notte; l’estate che sembra durare quasi tutto l’anno, perché puoi dire come viene e come va solo dall’andare e venire dei fiori; l’estate longeva che viene inaugurata dai narcisi, quei ciambellani dorati della corte dei fiori, e muore, come dovrebbe fare un re, sul letto purpureo degli anemoni, quando le campane della festa dei santi suonano il suo requiem da collina a collina. E Signa si diverte in tutta quella luminosità del tempo toscano, e tutto intorno a lei sembra cantare, dalla cicala che piomba tutto il giorno, nell’afa più calda, ai mandolini che vibrano di notte tra le foglie mentre i contadini vanno strimpellando gli accordi delle loro canzoni d’amore. Estate e canto e sole; Signa giace in mezzo a loro come lo scudo ferito dalla guerra di un cavaliere che sia caduto tra le rose e gli ori il nido di un’allodola.